IL TEMA DELLA MORTE

GIOVANNI PASCOLI

Il tema della morte è presente praticamente in tutta la produzione letteraria di Pascoli.

Nella struttura dei canti di Castelvecchio agiscono due motivi, quello naturalistico, modellato sul trascorrere delle stagioni e quello famigliare centrato sulla tragedia dell'uccisione impunita del padre. Il ritmo delle stagioni allude a un ordine naturale e alla segreta armonia dell'alternanza di vita e di morte, di fine e di rinascita; l'uccisione del padre configura invece una perdita irreparabile segnata dalla cattiveria umana e dunque estranea al ritmo naturale dell'esistenza. La dimensione della morte smette in tal modo di far parte del meccanismo naturale e non può essere più tutelata dai possibili risarcimenti. Il tema della morte si affaccia con il peso del perturbante, espressione di minaccia per lo stesso soggetto individuale. È come se i morti mettessero di continuo in pericolo il diritto alla vita del soggetto, così che dietro le forme della vita si nasconde sempre un mistero preoccupante e angoscioso. Il soggetto può reagire o abbracciando il punto di vista dei morti, e abbandonandosi ai temi vittimistici del non-vissuto, dell'esclusione e della propria morte, oppure rivendicando a se stessa, in quanto poeta, il diritto a esprimere il turbamento del lutto e a risarcire in questo modo la morte ingiusta, ridandole un ordine e un significato.

Ad esempio nella poesia "il gelsomino notturno" abbiamo tre riferimenti a questo tema. La poesia è ambientata nelle ore serali e notturne fino all'alba. Questo momento della giornata viene definito dal poeta come "l'ora che penso ai miei cari". Infatti, il tramonto rappresenta l'ora del giorno più adatta al raccoglimento e così il poeta si trova nello stato d'animo migliore per soffermarsi a ricordare le persone morte a lui care. Questo stesso tema viene poi ripreso nelle strofe successive dalle parole "fosse" del dodicesimo verso e "urna" del penultimo verso. C'è però da dire che l'erba che nasce è quasi testimonianza del continuare della vita, del suo trionfo sulla morte e proprio sul mistero di una nuova vita che prende inizio poggia tutta la lirica.

Anche nei poemetti, come già in Myricae, il fascino naturale sembra spesso alludere a una minaccia di morte e di rovina che non alla realizzazione dell'identità naturale; e forse ancora più rilevanti divengono qui il dolore e l'inquietudine misteriosa che accompagnano la vita umana. È questo il caso di "digitale purpurea". Questa lirica è collegata ad un ricordo di collegio della sorella Maria, la quale aveva raccontato al poeta che un giorno la madre maestra aveva vietato alle allieve di avvicinarsi a un fiore in un angolo del giardino perché il suo profumo era velenoso. Due amiche rievocano la loro vita in collegio e i loro turbamenti adolescenziali e quel fiore, la digitale purpurea, assume il significato di tentazione, attrazione-timore del proibito, colpa. La bionda Maria ha sempre evitato di avvicinarsi al fiore proibito mentre al bruna ardente Rachele confida infine all'amica, a distanza di tanto tempo, di averlo una volta voluto odorare. Innanzi tutto si può notare come a pronunciare la parola "morte" nel sedicesimo verso sia Rachele e non Maria che stava parlando.

Già si può notare la sostanziale differenza tra queste due figure femminili di cui Rachele, come ho già detto, rappresenta un'invenzione del poeta ispirata però, secondo alcuni critici, all'altra sorella di Pascoli Ida. Infatti, questa si era sposata nel 1895 rompendo l'unità del nido familiare, provando cioè l'esperienza proibita che la morbosa sensibilità del fratello e della sorella, rimasti fedeli al nido, considerano come esperienza vietata e di morte. Il tema ricompare esplicitamente con l'esclamazione "si muore" alla fine del componimento per bocca di Maria che dapprima, non comprendendo il senso del racconto, sorrise all'amica, ma che alla fine coglie il valore inquietante.

Come abbiamo visto il tema della morte è in Pascoli strettamente legato al tema della famiglia vista come nido. La morte del padre e successivamente anche quella della madre e di tre fratelli segna profondamente la sua persona e la sua poetica. Nel "la piccozza" possiamo vedere come il poeta senta dolorosa la sua condizione dovuta alla morte di molte delle persone care e in particolare della madre. Questo senso di mancanza caratterizza tutte le prime due strofe dove il poeta pone l'attenzione sul fatto che, privato dell'affetto e delle cure materne, abbia dovuto affrontare la vita con solo le sue forze non potendo sentire, come dice nella sesta strofa, nessun'altra voce fuorché quella dei morti.

Questo tema è poi il grande protagonista di Myricae. Ne dà annuncio il "giorno dei morti", collocato in posizione introduttiva, in cui il poeta immagina che tutti i morti della famiglia, a partire dal padre, abbiano formato nel cimitero una nuova unità famigliare, più autentica e profonda di quella serbata dai pochi superstiti. Questi ultimi sono rappresentati in una condizione indifesa e minacciata che non esclude però un senso di colpa rispetto ai defunti e un bisogno di riconciliarsi con loro, di invocarne protezione e, implicitamente, perdono. Se il mito della tragedia famigliare come destino subito produce testi quale X Agosto, il mito, collegato, della persecuzione funebre quale punizione, quale erompere del perturbante e infine quale espiazione della colpa d'esser vivo rovescia il suo carico angoscioso in testi come "L'assiuolo" e "Novembre".

L'assiuolo è un rapace notturno che Pascoli, come del resto la tradizione popolare, sente quale simbolo di tristezza e di morte. Il suo verso inquietante scandisce la lirica e via via si carica di valenze simboliche: dall'iniziale "voce dei campi" (v.7) diventa "singulto" (v.15) e infine "pianto di morte" (v.23). Inoltre, nei versi 19 e 20 il rumore provocato dallo sfregarsi delle gambe delle cavallette viene paragonato a quello dei sistri, strumenti musicali egiziani usati nel culto misterico di Iside, che prometteva ai suoi adepti la resurrezione dopo la morte. Tale fiducia nella resurrezione, però, è ora più problematica: le invisibili porte della morte forse sono chiuse per sempre.

Ancora più interessate è la poesia "novembre" in cui il paesaggio è una realtà a doppio fondo: sotto un'apparenza di armonia e di positività possono nascondersi, e spesso in effetti si nascondono, la presenza e la minaccia della morte. Qui una giornata mite e serena trasmette per un attimo l'illusione di essere in primavera, ma si è in realtà in novembre. In questo mese infatti cade la cosiddetta "estate di san Martino" in cui si possono avere alcune giornate quasi estive e cade però anche la ricorrenza dei morti; così il poeta può fondere i due aspetti, quello dell'apparenza estiva e quello dell'autunno reale, nella conclusione definendo il clima quale "estate dei morti". Quindi alla contrapposizione presentata nel paesaggio, tra primavera apparente e autunno reale, si sovrappone la contrapposizione vita-morte: all'apparente rinascita della vita corrisponde in realtà la morte incombente. L'idea della morte si impone attraverso una serie di allusioni simboliche: il terreno risuona sotto i piedi così da apparire "cavo", suggerendo dunque la sensazione del vuoto e del mondo sotterraneo, dove stanno i morti; il cadere delle foglie è definito "fragile" (v.11) aggettivo che rinvia alla fragilità della vita umana (dalla caducità delle cose si passa a quella degli uomini). In tal modo il riferimento esplicito alla morte nella conclusione del testo risulta una logica conseguenza di ciò che precede. Anche la poesia "I gattici" è sul tema della morte.

Guardando il paesaggio naturale il poeta si ricorda della primavera e sente con dolore che la stagione sta precipitando verso l'inverno, cioè verso il periodo dei "crisantemi" e dei morti; le illusioni della giovinezza sono passate esattamente come le "gemme" primaverili sono diventate foglie ingiallite trasportate dal vento. Infine di particolare importanza è la poesia "ultimo sogno".

GABRIELE D'ANNUNZIO

Il tema della morte è presente anche in d'Annunzio seppur in modo meno ossessivo che in Pascoli. Infatti, esso è presente praticamente solo nella prosa come conclusione tragica della vita dei protagonisti. Così ad esempio in "il trionfo della morte" assistiamo al personaggio, Giorgio Aurispa, che al termine del romanzo si suicida con l'amante, Ippolita Sanzio, lanciandosi da uno scoglio. In verità in questo romanzo il tema della morte fa da sfondo a tutta la vicenda.

Infatti questa si apre con il racconto di una passeggiata funestata dal suicidio di un passante che si getta nel vuoto. Inoltre la figura dello zio suicida di Giorgio ossessiona la psicologia sensibile di Giorgio e fa sì che l'idea di morte perseguiti il protagonista finché decide di lasciare che la tara ereditaria faccia il suo inesorabile corso e così si suicida. Meno significativo, ma comunque presente, questo tema è ripreso in Giovanni Episcopo dove il protagonista in un moto di ribellione alla propria apatia, dovuta al fatto che Walzer divenuto amante di Ginevra picchia Ciro, pugnala a morte l'amico. Anche l'Innocente si conclude con un assassinio in quanto Tullio, acceso da un'irrefrenabile gelosia, arriva a far si che il figlio (l'innocente del titolo) muoia forse assistito dalla complicità della moglie.

LUIGI PIRANDELLO

In Pirandello la morte diventa uno strumento. In "il fu Mattia Pascal" l'inferno della nuova vita coniugale, la difficoltà economica, la difficoltà in cui cade la nuova famiglia, le disgrazie (muoiono la madre e le due gemelle avute da Romilda) inducono Pascal a pensare al suicidio. Ma, improvvisamente arricchitosi alla roulette, egli approfitta di una falsa notizia della sua morte (è stato trovato un cadavere che gli assomiglia): si fa passare per morto e decide di cambiare identità. Non solo in questo caso troviamo all'interno del romanzo il tema della morte come modo per sfuggire dal meccanismo sociale. Più avanti, infatti, Pascal che ha assunto la nuova identità di Adriano Meis si innamora di Adriana, ma non avendo un'identità non può sposarla e quindi decide di allontanarla da se corteggiando la fidanzata di un pittore spagnolo, ma viene sfidato da questi a duello. Sempre privo di identità non trova i padrini necessari per battersi e così decide di fingere il suicidio nel Tevere. Del resto il tema della morte ricorre anche alla fine del romanzo quando Pascal, tornato al suo paese, dorme di notte nel letto della madre morta, quasi a ricongiungersi idealmente con lei, mentre di giorno vive in una biblioteca abbandonata: un luogo morto anch'esso. Inoltre va a trovare la propria tomba e si considera ormai al di là della vita, un fu. Pascal decidendo di farsi credere morto si è posto fuori dalla vita, in una condizione di estraneità e di distacco da ogni meccanismo sociale e alla fine del romanzo non può dire di sé altro se non "io sono il fu Mattia Pascal" così manifestando la consapevolezza non solo del suo attuale distacco dalla vita, ma anche della trasformazione nel frattempo avvenuta che lo induce a negare qualsiasi valore all'identità sociale (quella della maschera). Pascal è passato dalla situazione di "maschera" a quella di "maschera nuda", consapevole dell'impossibilità di qualsiasi identità. Infine, questo tema viene ripreso da un punto di vista quasi filosofico nel XIII capitolo con la lanterninosofia. Qui Anselmo Paleari spiega ad Adriano Meis come secondo lui l'uomo partecipi della vita dell'universo, ma con una sua coscienza, con un suo sentimento della vita dal quale deriva la sua limitatezza di orizzonti, la sua esclusione dall'universale; la morte potrebbe liberarlo da questo e significare un ritorno, una reintegrazione nell'Essere "che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione".